I personaggi Sardi


Giuseppe Brotzu scoprì la prima cefalosporina

La scoperta delle cefalosporine è da attribuire a un batteriologo sardo, Giuseppe Brotzu, il quale nel 1945 isolò e coltivò Cephalosporium acremonium, dimostrandone le proprietà antibiotiche.
Contrariamente a quanto spesso si legge, non fu un caso di serendipity, ovvero di scoperta casuale, come la favola persiana vuole accadesse ai tre principi di Serendip. Le ricerche di Brotzu, infatti, miravano proprio all’identificazione e all’isolamento di nuovi microrganismi produttori di antibiotici. Sfortunatamente, non disponendo di risorse, non poté procedere personalmente alla purificazione delle molecole attive e, quindi, decise di inviare una coltura del suo Cephalosporium ad Oxford, dove nove anni più tardi, nel 1954, la prima cefalosporina fu purificata. Il lavoro di Abraham e Newton, che stabilirono la struttura chimica con il caratteristico nucleo dell’acido 7-aminocefalosporanico, fu possibile solo in quanto la coltura era stata loro servita, è il caso di dirlo, su una piastra d’argento.

Giuseppe Brotzu (1895-1976), famoso igienista di Cagliari, si chiedeva come mai nella nostra città il tifo intestinale avesse una minore virulenza che altrove. Egli formulò diverse ipotesi; un giorno poi, mentre passava nei pressi di "Su Siccu", vide dei giovani che pur facendosi il bagno in quelle acque, dove c'erano gli scarichi fognari, non si ammalavano di tifo. Allora prelevò quell'acqua e la seminò nei brodi di coltura, ma essendo in periodo di guerra mancava la carne per fare i brodi di coltura, Brotzu si procurò nei reparti di ostetricia la placenta delle donne partorienti che bolliva per ottenere il brodo. Da quest'acqua, con l'aiuto del suo assistente Antonio Spanedda (1907-1998), isolò un fungo che effettivamente produceva una sostanza efficace contro i G negativi (il tifo addominale infatti è causato dalla Salmonella Typhi, che come tutte le enterobacteriacee, è G negativo). Però quello che isolò era ancora un composto grezzo non producibile su larga scala. Tra l'altro quando Brotzu chiese i finanziamenti, questi gli furono negati per motivi politici, avendo egli nel passato aderito al fascismo. Inoltre, lo stesso Brotzu si dedicò sempre meno alla ricerca perché si diede alla politica, diventando prima Sindaco di Cagliari e poi Presidente della Regione Sarda.
Brotzu, già durante il fascismo, si impegnò nella lotta antimalarica. Nel dopoguerra fu consulente della Fondazione Rockfeller che, grazie all'opera di bonifica del territorio da una parte, e l'uso massivo del DDT dall'altra, in 4-5 anni si riuscì (1950) a sradicare questa patologia combattendo i vettori che la trasmettevano. Nonostante abbia avuto grandi meriti (per la scoperta della cefalosporina fu anche proposto per il Premio Nobel) non viene nominato in quasi nessun testo di storia della medicina italiana, mentre è nominato nei libri di farmacologia di tutto il mondo. Tra l'altro Brotzu non solo non ebbe gli onori, ma neanche il denaro; infatti consegnò alcuni ceppi del fungo cefalosporium ad un ufficiale sanitario inglese che era giunto in Sardegna per la campagna antimalarica, il quale, a sua volta, diede tutto ad Edward Abraham (1913-1999), allievo di FIeming, che isolò la cefalosporina. Fu venduta in tutto il mondo dalle casa farmaceutiche Glaxo e Lilly con grande vantaggio economico per le medesime.


Grazia Deledda


Grazia Deledda nacque a Nuoro il 27 settembre 1871.Giovanissima,dopo studi modesti ed irregolari , collaborò, nascondendosi dietro uno pseudonimo, a diverse riviste femminili. Il suo primo romanzo importante, la via del mare, venne pubblicato da un editore torinese nel 1896.

Durante un soggiorno a Cagliari conobbe Palmiro Madesani che divenne suo marito e con il quale, nel 1900,lasciò definitivamente la Sardegna. Morì a Roma, dove fino ad allora aveva vissuto, il 15 agosto 1936. E' sepolta a Nuoro,secondo il suo desiderio, nella chiesa della solitudine. La produzione della Deledda, alla quale nel 1926, è stato assegnato il premio Nobel, è ricchissima. Quasi tutte le sue opere, romanzi e novelle, hanno per oggetto la Sardegna, ed è nell'isola che i suoi personaggi agiscono in un continuo alternarsi di bene e di male, di peccato e di espiazione. Tra i romanzi più importanti ricordiamo: Elias Portolu(1903); Cenere(1904); Edera(1908); Colombi e sparvieri (1912); Canne al vento (1913); Marianna Sirca(1915); l'incendio nell'oliveto (1918); La madre(1920); Cosima (postumo, 1937).

Emilio Lussu

Emilio Lussu nato ad Armungia nel 1890, compì i suoi studi a Lanusei, a Roma e a Cagliari, dove si laureo nel 1915, in Giurisprudenza. Subito dopo partì per la guerra , dove ebbe modo, combattendo come ufficiale della "Brigata Sassari", di mostrare coraggio e umanità, acquistando grande prestigio presso i soldati di questa formazione, in gran parte sardi. Nel dopoguerra fu uno dei fondatori del Partito Sardo d'Azione, per il quale fu eletto deputato nel 1921.Oggetto della violenza delle squadre fasciste,fu arrestato e inviato al confino all'isola di Lipari, da dove riuscì a fuggire avventurosamente nel 1929,con Carlo Rosselli e Fausto Nitti.Esule in Francia,fu uno dei fondatori di "Giustizia e Libertà",uno fra i movimenti europei più attivi,nel corso degli anni Trenta,nella lotta antifascista.

Dopo aver combattuto nella guerra di Spagna,caduto il Fascismo,rientrò in Italia e partecipò attivamente alla Resistenza.In seguito,fu ministro dei governi Parri e De Gasperi.

Passato al partito socialista,confluì poi nel Partito Socialista di Unità Proletaria. Fu senatore dal 1948 al 1963.

Morì a Roma il 5 marzo 1975.

Oltre che per il suo intenso impegno politico, Emilio Lussu va ricordato per la sua attività di scrittore,che esercitò soprattutto durante il suo esilio. Da ricordare in modo particolare, Marcia su Roma e dintorni,del 1933,e Un anno sull'altipiano, del 1938; quest'ultimo può considerarsi uno dei capolavori della narrativa pacifista mondiale, poichè attraverso il racconto delle sue esperienze di combattente nella prima guerra mondiale,l'autore rivela il suo radicale rifiuto della violenza.

Nel 1987 è uscito a cura di alcuni studiosi dell'Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell'Autonomia, la difesa di Roma da parte del re e delle truppe italiane.

 

ANTONIO PIGLIARU

Antonio Pigliaru ( nato a Orune,17 agosto 1922,morto a Sassari,27 marzo 1969) è stato l'intellettuale più originale e originale nella storia della cultura della Sardegna in questi ultimi vent'anni.

Ordinario di dottrina dello stato nell'Università di Sassari, ha lasciato numerose opere,che documentano non soltanto lo svolgimento del suo pensiero , ma anche l'ampio ventaglio di direzioni su cui si esercitò il suo impegno culturale: dal suo libro più famoso, quel LA VENDETTA BARBARICINA come ordinamento giuridico (Milano 1959) che resta insieme ad altri scritti ripubblicati ora nel volume postumo IL BANDITISMO IN SARDEGNA (Milano 1970) , un testo fondamentale per la conoscenza del più drammatico dei nodi storici della "questione sarda" , a Persona umana e ordinamento giuridico (Milano 1953), che è la sua prima opera di respiro intorno ai temi essenziali del rapporto tra diritto e uomo ; dalle dolorose e rigorose meditazioni sul regime penitenziario italiano (Sassari 1959) a La piazza e lo Stato (Sassari,1961) che anticipa i motivi più importanti del dibattito democratico di questi tempi più vicini a noi; da Struttura, soprastruttura e lotta per il diritto (Padova 1965) a l'eredità di Gramsci e la cultura sarda (relazione al convegno internazionale di studi gramsciani, Cagliari aprile 1967,ora negli atti,Gramsci e la cultura contemporanea, I, Roma 1969, che segnano, nei suoi ultimi anni,l'emergere di una più radicata metodologia storicistica ; dal promemoria sull'obiezione di coscienza (in quattro studi, Sassari 1968) agli scritti sulla didattica universitaria,degli anni 1968-1969.

Ma Pigliaru non era soltanto un uomo "da tavolino". Fu anche e soprattutto, benchè vissuto in condizioni di salute molto precarie e ben presto certo di una morte ineluttabilmente vicina, un grande organizzatore di cultura : il suo interesse primario che era quello rivolto ai problemi della sua terra ( e dunque ai problemi dell'autonomia regionale , di una democrazia autenticamente popolare, di una cultura moderna ed aperta, del riscatto del mondo dei dimenticati e degli oppressi, dell'alleanza di tutte le forze progressive dell'isola e del paese), si espresse attraverso una lunga azione pubblicistica e di promozione dei luoghi d'incontro e di articolazione del dibattito politico e intellettuale in Sardegna.

 

Salvatore Cambosu

Salvatore Cambosu nasce a Orotelli, in provincia di Nuoro, nel 1895. Compie i primi studi a Nuoro, dove consegue la maturità classica e il diploma di maestro elementare. Frequenta le università di Padova e Roma, senza però mai laurearsi. Rientrato in Sardegna, insegna in diversi centri dell’isola, trasferendosi successivamente in maniera definitiva a Cagliari. Muore a Nuoro, nel novembre del 1962.

Giornalista fecondo e impegnato, acuto osservatore della realtà sarda, collabora a diverse testate regionali e nazionali come “Il Politecnico”, “Il Mondo”, “Nord e Sud”, “Ichnusa”, “L’Unione Sarda”.

Quella di Cambosu, scrittore sensibile e conoscitore delle tradizioni della propria terra, è una Sardegna di antichissime radici narrata in un momento di lotta fra la conservazione del proprio passato e la proiezione verso il nuovo e il futuro.

La sua opera più significativa è senz’altro “Miele amaro” (1954), che è stata definita dagli intellettuali sardi dell’epoca, come “Il fatto più rilevante della cronaca letteraria sarda degli ultimi decenni” (A.Pigliaru), “Un bastimento carico di spezie e di fiabe, di essenze di storia, d’immagini preziose e di racconti, di miele e di poesia” (G.Pinna), ecc.

Ricordiamo anche altre opere di Cambosu, come Lo zufolo del 1932, Il carro pubblicato a puntate nel 1934 su “l’Unione Sarda”, Una stagione a Orlai, segnalato dalla giuria al premio Grazia Deledda del 1954.

 

Giovanni Salvatore Satta

Nasce a Nuoro il 2 Agosto 1902, ultimogenito di Salvatore Satta notaio, e Valentina Galfrè. Dopo aver frequentato il Liceo governativo "Azuni" di Sassari, nel 1921 si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza della Regia Università di Pavia. Prosegue gli studi universitari presso le Università di Pisa e di Sassari e in quest'ultima consegue la laurea col massimo dei voti. Trasferitosi a Milano per esercitare il tirocinio di avvocato, scrive La veranda con la quale nel 1928 parteciperà, senza successo, al premio Viareggio. Ottenuta la libera docenza, negli anni '30 insegna nelle Università di Camerino, Macerata e Padova e scrive il Contributo alla dottrina dell'arbitrato (1931), La rivendita forzata (1933), e L'esecuzione forzata (1937). Nel 1937 si sposa a Trieste e dopo un anno si trasferisce a Genova dove nascono i suoi due figli. Negli anni immediati pubblica Teoria e pratica del processo (1940), Guida pratica per il nuovo processo civile italiano (1941), Istituzioni di diritto fallimentare (1943). Dopo dieci anni di insegnamento e altrettante pubblicazioni, Satta si trasferisce dalla città ligure a Roma dove vivrà sino al 1975, anno della sua morte.

Il giorno del giudizio venne pubblicato postumo nel 1977, non solo perchè apparve dopo la morte di Satta, ma anche perchè, sotto molti aspetti, è un libro dei e per i morti, anche se è bene ricordare la sua stesura iniziò nel 1970. Immediatamente riconosciuto come un capolavoro, venne tradotto in 16 lingue e pubblicata in 17 paesi, mentre nel 1981 venne ritrovato e dato alle stampe l'originale, manoscritto e inedito, della Veranda.

Sebastiano Satta

Sebastiano Satta nacque a Nuoro il 21 Maggio 1867. Avviato dal padre avvocato verso gli studi giuridici, si laureo in Giurisprudenza a Sassari. Rientrato a Nuoro, si dedicò alla carriera forense e ben presto acquistò fama di penalista capace e di oratore brillante.Oltre all'avvocatura esercitò, in quegl'anni un'intensa attività letteraria e giornalistica e collaborò ad alcunio fra i più prestigiosi quotidiani e riviste letterarie del tempo, nazionali e regionali. Nel 1908, colpito da paralisi, rimase quasi privo della parola . Morì a Nuoro nel Novembre del 1914.

Sebastiano Satta è il maggiore poeta sardo dell'800.

La sua produzione poetica, permeata di ideali umanitari, si ispira principalmente alla vita regionale ma è aperta al tempo stesso alle maggiori esperienze della poesia Italiana del tempo, dal Carducci al Pascoli.

Le sue liriche migliori sono raccolte nei Canti Barbaricini e nei Canti del salto e della tanca.

 

Antonio Gramsci

Antonio Gramsci, nato ad Ales nel 1891, studiò in diverse scuole dell'isola fino a conseguire la licenza liceale al Liceo "Dettori" di Cagliari. Una borsa di studio gli permise di iscriversi alla Facoltà di Lettere all'Università di Torino, ma, per i numerosi i mpegni politici, non terminò gli studi. Iscrittosi al partito Socialista, entrò nella redazione torinese dell' "Avanti", dando poi vita nel 1919, con Togliatti e Terracini, al periodico "L'ordine nuovo", di cui assunse la direzione nel 1921: Nello stesso anno, al Congresso di Livorno, con altri socialisti dissidenti fondò il Partito Comunista d'Italia. Nel 1922 si recò a Mosca come delegato del nuovo partito: ammalatosi e ricoverato in un sanatorio, vi conobbe Giulia Schucht che divenne la sua compagna e da cui ebbe due figli, Delio e Giuliano. Eletto deputato alla Camera nel 1924, venne arrestato come oppositore del fascismo nel 1926: da prima confinato nell'isola di Ustica, venne processato nel 1928, condannato a venti anni di reclusione e trasferito nel carcere di Turi a Bari: Pur profondamente minato nel fisico,durante la detenzione si dedicò con grande impegno allo studio, affrontando, con critica rigorosa, temi di cultura , di storia, di politica e offrendo una organica elaborazione del pensiero marxista.

Le sue peggiorate condizioni fisiche che convinsero le autorità a trasferirlo più volte: dapprima, nel 1933, nel carcere di Civitavecchia e in una clinica di Formia, e poi, nel 1935,nella clinica "Quisisana" di Roma, dove il 27 aprile del 1937, si spense per emorragia cerebrale.

Le pagine scritte durante la detenzione furono pubblicate nel dopoguerra. I Quaderni del carcere e le Lettere dal carcere costituiscono, oltre che il segno di una grande forza morale, una testimonianza straordinaria di una lucida intelligenza critica e di un'ampia capacità di analisi dei problemi culturali e politici.

 

ANGIOJ GIAN MARIA

Uomo politico sardo (Bono 1761- Parigi 1808); giudice della reale udienza, in occasione della agitazione antifeudale e antipiemontese dell'isola, fu l'anima del governo autonomo sardo, (1794-95); inviato poi dal viceré Vivalda vicario a Sassari (13 febbraio 1796), vi fomentò e diresse un moto giacobino e antifeudale e marciò contro Cagliari. Vinto abbandonò l'isola (17 giugno 1797) ,rifugiandosi l'anno successivo a Parigi.

 

ELEONORA D'ARBOREA

(1347-1404)

Nata ad Oristano da Mariano II, giudice d'Arborea, visse in un periodo in cui la sua terra veniva spesso assaltata dai saraceni. La casa d'Arborea, il cui potere si estendeva su un terzo della Sardegna, era diventata per la gente del luogo l'unica difesa contro il dominio degli stranieri. Date le circostanze, Eleonora crebbe con una naturale propensione alle armi. La sua bellezza d'animo e di fisico la resero sposa del genovese Brancaleone Doria, noto per le sue virtù militari e la sua gentilezza.

Le nozze, che garantivano la pace per la Sardegna contro il dominio degli Aragona, furono accolte con esultanza dalla popolazione. Alla morte del padre e del fratello, per mano aragonese, nel 1883 Eleonora prese le redini del governo di Arborea. Ingegnosa ed energica sedò una rivolta popolare contro la sua casa, si batté in due delle lunghe guerre contro gli aragonesi e riuscì ad assicurare l'indipendenza agli stati d'Arborea. Ritoccò perfezionandolo, il codice di leggi civili e penali, ossia la Carta de logu, che poi fu adottato da quasi tutte le città sarde. Generosa e caritatevole, inoltre, si dedicò intensamente alla cura degli appestati, degli orfani e dei bisognosi.

 

FAIDA E BALENTIA IN SARDEGNA

La famigerata faida, che spesso insanguina la cronaca sarda , è un tipico fenomeno legato all'ambiente barbaricino, che nasce e trae origine dalla sete di vendetta. Nella fattispecie la faida non è altro che un susseguirsi di azioni conflittuali, che indirizzi o gruppi si scambiano fra di loro.

Si attua per riscattare quelle che sono ritenute gravi offese, per chi le subisce, e che hanno in qualche modo leso l'onore e l'integrità morale di una persona. Il ricorso a una vendetta privata nasce fondamentalmente da una sfiducia nei confronti dello stato e del suo sistema giudiziario, ritenuto inadeguato a far fronte a tale tipo di conflitto. C'è quindi un forte divario e una netta differenziazione tra il codice nazionale e quello locale, che si ritrovano ad essere in conflitto.

Il codice barbaricino, è un codice culturale che nutre e alimenta quella che viene definita la "cultura della vendetta", e che si manifesta inevitabilmente sul corpo. Il fenomeno della faida è stato, fra l' altro, studiato e analizzato da una grande figura della cultura sarda, Antonio Pigliaru, che come studioso di diritto penale si era interessato a curarne l'aspetto socio-giuridico.

Non tutti però possono essere protagonisti di una faida. Vi possono "partecipare" solo coloro che ne hanno le caratteristiche, le capacità.

Bisogna essere homine (letteralmente uomo), cioè bisogna essere abili, agili, essere fisicamente forti e intelligenti. E questo perchè solo l'uomo dotato di forza fisica e morale, è e sarà capace di dominare la sorte. L'uomo perciò, che attraverso la sua abilità e la sua forza, acquista onore è un balente, ovvero la persona che riscatterà le offese subite dal suo gruppo familiare, applicando in questo modo il diritto alla compensazione. Obiettivo, cioè della vendetta, è quello di finire il nemico e sopravvivere alla sua morte, ed è in questo senso che si parla di compenso. Ma un balente per essere tale e per aderire in maniera totale al "codice" deve avere autocontrollo, deve essere padrone di se stesso, cioè della sua testa. Questo è un elemento fondamentale se si vuole sopravvivere nella cultura della vendetta, se si vuole dominare la morte per non subirla. La padronanza di sé, del proprio corpo è indispensabile insomma per poter vivere in una cultura così competitiva.

Alla figura del balente si contrappone quella del guastu (letteralmente guasto, andato a male), che designa in barbagia una persona affetta da menomazioni fisiche, e che per tale motivo non può certo incorrere in azioni violente. In questo senso, queste due figure, questi due simboli, rappresentano i poli opposti ed estremi della società barbaricina. La figura del balente riflette inevitabilmente l'immagine di una società ordinata e forte, dove la fierezza rappresenta il pilastro su cui questo impianto culturale si regge.

E' chiaro che il balente per mettere in atto la sua azione offensiva si avvale di armi, che in questo contesto non rappresentano solo il mezzo con il quale colpire il nemico, ma rappresentano simbolicamente l'estensione del corpo e della sua potenza. Non ci sono parole nella vendetta, ma solo azioni, gesti, che sono mortali, distruttivi.

La vittima, colui che subisce la morte, è detta "su mortu" (il morto) e si distingue da un qualunque altro morto per le modalità attraverso le quali si è consumato il suo destino. E se il suo destino è finito in questo modo, vuol dire che se lo è meritato in qualche modo. Quel genere di morte è un fatto sociale, non può essere qualcosa di privato e vissuto perciò all'interno della propria intimità familiare, poiché è sottoposto alla vista di tutti. La

"mala morte" , così viene chiamata, non conosce riservatezza, ma viene vissuta dalla sua collettività.

Il gruppo familiare che subisce la morte, ha il compito di vendicarsi e il sangue versato, che quì indica morte, è lo stesso elemento a cui il gruppo familiare si appella, si rifà se vuole evitare la propria distruzione. Il sangue è perciò segno distintivo: riunisce in sé il significato di vita e di morte. La presenza del corpo morto fa scattare inevitabilmente una ridefinizione di giudizi su vivi e morti. L'ucciso è giudicato buono, non ha più colpe, è innocente. Eventuali addebiti di colpa vengono attribuiti in maniera velata, leggera, e una volta morto, l'intera comunità è obbligata a manifestare la propria solidarietà e partecipazione alla famiglia dell'ucciso.

In questo modo si concede una sorta di tregua, una sospensione momentanea degli aspri conflitti che animano la faida. Anche in questo momento, però c'è sempre una distinzione dei ruoli, perché se agli uomini spetta il compito di vendicarsi, alle donne tocca quello di

esprimere il proprio dolore, tocca portare il lutto, tocca vestirsi rigorosamente in nero per tutta la vita. In modo particolare, la moglie della vittima, non potrà uscire, nè tantomeno partecipare a incontri esterni alla vita strettamente familiare. Questo non significa rottura dei rapporti sociali, che invece si rafforzano e intensificano, poichè sarà la collettività a portare la propria solidarietà alla moglie e alla famiglia di "su mortu". Ma il tempo del lutto, per la donna, può avere però anche un altro significato, poichè essa può rivestire il ruolo di custode dell'odio che porta alla vendetta, è insomma istigatrice.

Il funerale, che come è stato detto, riunisce l'intera comunità, è un'occasione sociale dove avviene un vero e proprio scambio tra la famiglia e la collettività. Ne è la testimonianza l'offerta e il dono di cibi vari alla famiglia dell'ucciso. Vengono addirittura offerti interi pranzi già cucinati, riservati però ai parenti più stretti ed intimi della vittima. In occasione, poi di riti come l'anniversario di trigesimo, la famiglia del morto ricambia distribuendo i pani benedetti in memoria del defunto. Insomma, in questa alternanza di odio e tregua all'odio stesso, si esplica e si manifesta una cultura tormentata e lacerante dove si mescolano sentimenti forti, ma deleteri. La difesa di sè stessi è regolata da "norme" crude, da condannare senza alcun dubbio, ma che hanno, come è stato descritto, una loro "ragione", una loro storia, una vera e propria tradizione.